Come e dopo quanto tempo si valuta l’efficacia della terapia

Dopo un tempo dall’inizio della cura, in genere 2 o tre mesi, si valuta l’efficacia della terapia attraverso tre strumenti: la visita, i test radiologici, ed eventualmente i marker tumorali.

Il primo strumento è la visita che permette di capire le condizioni del paziente. Se il paziente all’esordio aveva dei sintomi causati dal tumore e dopo settimane di terapia scompaiono, questo riscontro è una prova molto forte di efficacia indipendentemente dal risultato degli altri test. Se invece all’inizio della cura il paziente non aveva sintomi, la visita non aiuterà a capire se la terapia funziona o no; a meno che il paziente lamenti sintomi di nuova insorgenza non dovuti ad effetti collaterali delle terapie. In questo caso è probabile che la malattia sia aumentata di dimensioni e quindi la terapia non stia funzionando.

Il secondo strumento è l’imaging, cioè la diagnostica per immagini, in generale TAC, Pet, risonanze, ecografie e scintigrafie. Questi test, fatti prima dell’inizio terapia, vengono ripetuti dopo 2-3 mesi e le immagini vengono confrontate. Se c’è una riduzione delle dimensioni si parla di risposta. Se le dimensioni delle metastasi rimangono invariate si parla di stabilizzazione. Quando invece le dimensioni delle lesioni aumentano, si parla di progressione. FIGURA 18

Fig 18. La valutazione dell’efficacia delle cure Le terapie antitumorali hanno sempre una qualche efficacia contro il tumore che sta crescendo (la linea bianca iniziale che va verso l’alto). Però è logico che il solo rallentamento della crescita non può considerarsi un buon risultato. Quando si inizia una cura contro il tumore si spera sempre di ottenere il risultato migliore, ma a volte, anche solo stabilizzare la malattia può essere visto come un buon risultato, soprattutto se la malattia era particolarmente aggressiva (rapida evoluzione) prima dell’inizio della cura.


Il terzo strumento è quello dei marcatori tumorali. (IL FOLLOW UP) Nel caso in cui il tumore produca i cosiddetti markers (CEA PSA CA19-9, CA15-3, CA125, alfafetoproteina ecc), una loro riduzione è un segno favorevole e viceversa. Va detto che questi hanno una attendibilità limitata ed in generale vengono usati solo a supporto degli altri due strumenti. Nel determinare l’importanza dei markers come indice di efficacia delle cure, sono due i parametri che contano:

• l’evoluzione del loro valore nel tempo;

• il loro valore assoluto.

Un marker che si alza costantemente dopo tre o quattro valutazioni successive dà un segnale abbastanza forte di progressione. Questo segnale è ancora più forte se i livelli assoluti del marker in questione non sono di poche unità o decine ma di centinaia o migliaia: un aumento da 5 a 7 non è significativo. Un aumento da 5000 a 7000 lo è molto di più, anche se la proporzione di aumento è la stessa.

È da ricordare che in ordine di importanza nell’indicare se una cura funziona o no, il miglioramento dei sintomi (se presenti) è al primo posto, poi viene la TAC e gli altri test di imaging, infine vengono i markers.

Ciononostante esistono situazioni in cui è proprio il marker l’unico indicatore di malattia ed in queste condizioni è l’unico strumento a disposizione per valutare l’efficacia dei trattamenti. Questo avviene occasionalmente nel tumore della mammella, CA 15,3, dell’ovaio, CA 125, del colon, CEA, del pancreas CA19,9 e della prostata PSA per i rispettivi aumenti dei markers, senza che l’imaging dimostri presenza di malattia.

L’inizio del trattamento della fase avanzata della malattia sulla base del solo aumento del marker in genere è il frutto della comprensibile ansia da parte del paziente, che spinge l’oncologo ad iniziare il trattamento anche se “il tumore non si vede ancora“. L’apprensione è più che giustificata perché, nonostante i limiti dei markers, la loro costante salita, nel contesto giusto (alto rischio), può dare la certezza della ricaduta.

Tuttavia c’è un certo consenso internazionale sul fatto che non sia una buona pratica medica “trattare il marker”. Le decisioni mediche devono tenere conto anche dei fattori psicologici e quindi, cominciare una cura sulla sola base del rialzo del marker è una strategia “accettabile”, anche se sconsigliata in quanto non c’è beneficio nell’ anticipare il trattamento sulla base dei marker rispetto ad iniziarlo quando l’imaging rivela le metastasi.

Alla fine della visita di rivalutazione, la malattia potrà essersi:

  • ridotta (si parla di risposta).
  • Fermata (si parla di stabilizzazione).
  • Accresciuta (si parla di progressione di malattia). Il tumore non ha risentito della terapia e continua a crescere in quanto resistente alle cure. FIGURA 17, 18

 

Fig 17. Le possibili evoluzioni del tumore dal momento della comparsa delle metastasi. Purtroppo anche se la cura inizialmente funziona arriva un momento in cui il tumore ricresce Nel caso illustrato, l’iniziale rimozione del tumore primitivo (il cerchietto bianco) non ha avuto successo per la presenza di metastasi non visibili al momento dell’intervento. Queste, crescendo, col tempo sono diventate visibili (il cerchietto bianco della recidiva). La terapia medica iniziata, detta di prima linea, (chemio, ormono, immunoterapia o terapie biologiche) può essere più o meno efficace. Se funziona bene, il tumore risponde riducendosi. Se no, può rimanere fermo, stabilizzandosi o continuando a crescere nonostante la cura. La diversa efficacia delle cure determina il decorso più o meno buono della malattia.


È evidente che, se il tumore risponde cioè si riduce, le prospettive future sono molto migliori delle altre due condizioni. Questa notizia rinfranca moltissimo i pazienti e giustamente gli dà nuova forza per continuare le cure.

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